Journey, un viaggio inatteso

Di Desiré Calanni

Da anni ormai la maggior parte delle discussioni tra me e il mio ragazzo hanno come tema principale i videogiochi. No, non si tratta del cliché trito e ritrito di “lei” che rimprovera a “lui” di passare troppo tempo attaccato al joypad. Quello che ci infiamma è il tentativo di capire se e fino a che punto il videogioco, inteso come nuovo mezzo espressivo, possa essere considerato un’ottava arte. Ecco allora emergere due posizioni opposte e discordanti, interpretate fino allo sfinimento da due grotteschi personaggi:

Lui: videogamer incallito, conoscitore attento del mezzo, sempre informato sulle ultime novità più o meno note in ambito videoludico. Un combattente armato di joypad e protetto da una solida armatura teorica frutto di studio e passione.

Io: purista fino allo sfinimento. Una paladina armata di libri con una biro al posto della spada. Da sempre ossessionata dalla domanda “cos’è l’opera d’arte?”, mi risulta difficile approcciarmi a certa arte contemporanea, figuriamoci ai videogiochi.

Potete immaginare quante scintille e fiamme nate dalla collisione di due personaggi del genere. Scontri che non hanno portato ad alcun risultato finché la sottoscritta non ha smesso gli abiti da don Chisciotte e intrapreso un percorso dal titolo “Journey“.

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Journey, per chi non ne avesse mai sentito parlare, è un videogioco del 2012 sviluppato dalla casa videoludica indipendente Thatgamecompany. Quando mi è stato proposto di provarlo mi sono gettata sul divano e ho iniziato svogliatamente e anche un po’ distrattamente quello che si è rivelato poi essere un meraviglioso viaggio!

È bastato un attimo perché la distrazione e la svogliatezza si tramutassero in curiosità. Un breve video iniziale mostra la distesa sconfinata di un deserto fino all’apparizione del protagonista del gioco: una figura incappucciata – il cui abbigliamento ricorda vagamente quello delle popolazioni Tuareg – dal viso privo di lineamenti sul quale si stagliano due luminosissimi occhi. Un essere dal sesso indefinito, solo o sola in mezzo al deserto, che può interagire con l’ambiente circostante tramite soltanto tre azioni: camminare, volare ed emettere suoni simili a canti.

Sono io, ho pensato, e da subito, con molta naturalezza, ho intrapreso questo percorso. Ho attraversato il deserto, tra le vestigia di misteriose civiltà scomparse, aiutata da altrettanto misteriose creature che di tanto in tanto sbucano fuori per indicare la via o forse, semplicemente, per tener compagnia. Tra deserti, rovine, città perdute e paesaggi artici, il viaggio della misteriosa figura incappucciata si svolge linearmente tramite il superamento di diverse tappe che corrispondono ad altrettante ambientazioni. Già questi elementi potrebbero bastare per fare di Journey un videogame fuori dal comune. Eppure c’è di più. Se si decide di giocare in modalità multiplayer online, è possibile incontrare altri giocatori con i quali condividere il proprio viaggio in tempo reale. Ognuno sarà ignaro dell’identità dell’altro e l’unico modo per poter comunicare, se si volesse farlo, è un linguaggio privo di parole, fatto di movimenti e brevi suoni. L’unico modo che si ha per entrare in contatto con l’altro, insomma, è avvicinarsi fisicamente ad esso, senza paura, liberi dalla dittatura delle parole.

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In breve, Journey non è un videogioco nel senso classico (o comunque più diffuso) del termine: non vi sono lotte, non vi è competizione, non ci sono obiettivi da raggiungere per non far perire il proprio personaggio. Non vi sono parole, in Journey, ogni contatto è empatico e intimo, fatto di segnali non prestabiliti, di linguaggi di volta in volta nuovi, le cui regole vengono stabilite tacitamente tra i giocatori che si incrociano vicendevolmente durante il proprio percorso. Si incrociano come ci si incrocia nella vita, per caso, e per caso o volontà si sceglie, a volte, di condividere il proprio cammino. Senza parole, accompagnati dal sogno e da mille domande.

A percorso terminato (meno di due ore in tutto) le domande che avevo in mente all’inizio erano scomparse per lasciar posto a nuovi interrogativi. Non so ancora se il videogioco in quanto tale possa esser definito un mezzo artistico, non ho più la presunzione di rispondere a quest’annosa questione. Ma adesso so per certo che è un mezzo portentoso, in grado di veicolare messaggi non scontati, suscitare interrogativi e aprire nuove finestre sul mondo e su nuovi mondi che aspettano solo di esser scoperti.

Non è forse questa una delle caratteristiche delle opere d’arte?

Turchia, la difficile transizione da Repubblica a Sultanato

di Walter Bressi

In migliaia ieri sono accorsi per dare l’estremo saluto a Tahir Elci, leader degli avvocati curdi ucciso a colpi di pistola a Diyarbakir, nel sud-est della Turchia, un’area a netta maggioranza curda. Elci, che era anche un attivista per i diritti umani molto famoso in Turchia, si trovava lì assieme ad un’altra quarantina di attivisti, intento a leggere un comunicato sui danni causati alla città di Diyarbakir dagli scontri avvenuti qualche giorno addietro tra manifestanti filocurdi e polizia. Il governo di Ankara, per mezzo dell’agenzia di stampa ufficiale Anadolu, ha accusato dell’accaduto i “ribelli” del Partito dei Lavoratori Curdi, il Pkk. Per contro, le opposizioni parlano di “omicidio di regime“, sottolineando come Elci sia diventato una figura di disturbo all’azione del governo Erdogan a seguito di un’intervista, rilasciata il 14 ottobre scorso alla Cnn turca, nella quale aveva dichiarato che “il Pkk è un movimento che ha importanti domande politiche e che gode di vasto supporto, anche se a volte le sue azioni hanno natura terroristica“. Per questa dichiarazione è stato dapprima arrestato, poi liberato su cauzione in attesa del processo nei suoi confronti per “propaganda di organizzazione terroristica”.

Tahir Elci, avvocato e attivista curdo

Tahir Elci, avvocato e attivista curdo

Certamente, l’assassinio di Elci getta altra benzina sul fuoco sulla delicata posizione del popolo curdo in Turchia. Fin dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano, i 30 milioni di curdi hanno sempre lottato per il riconoscimento di uno stato curdo indipendente, il Kurdistan, un’area di 550mila metri quadrati attualmente divisa tra Turchia sud-orientale, Siria, Iraq e Iran. Nel 1920 il Trattato di Sevres stabilisce il diritto di nascita del Kurdistan nelle province orientali dell’Anatolia. Nel 1923 il Trattato di Losanna ribalta le cose, consentendo alla Turchia di annettere la maggior parte del territorio curdo, evento cui seguiranno 15 anni di scontri feroci tra resistenza curda e il governo di Ankara. La situazione curda è tornata di grande attualità a partire dal 1974, anno in cui i curdi turchi si sono organizzati nel PKK, scatenando così una reazione repressiva del governo di Ankara che finora ha prodotto 35mila morti nei villaggi curdi, oltre a 3 milioni di rifugiati, sparsi tra Europa(sopratutto Germania), Nord America e Medio Oriente. Un genocidio silenzioso e soffuso, raccontato mirabilmente da Jin(2013), pietra miliare del cinema turco contemporaneo, che ha portato anche a un massiccio esodo dei curdi dal sud-est del paese verso le grandi metropoli turche, Adana, Izmir, Istanbul e Ankara, dove spesso vivono in condizioni sociali e igieniche assai precarie, in quei “ghetti” dove organizzano le proprie azioni terroristiche verso il governo turco (ne avrete sentito parlare di recente …). La questione curda è senza dubbio cruciale per Erdogan che non può tollerare focolai di instabilità nel suo nuovo Sultanato, e a maggior ragione non può consentire la nascita di uno stato curdo. E allora se i curdi combattono in Siria e Iraq per fermare l’avanzata dello Stato Islamico, circostanza che potrebbe a lungo tempo legittimarli a far valere delle pretese per la costituzione di un Kurdistan almeno tra Siria e Iraq, la Turchia di Erdogan ha tutte le ragioni, dal suo punto di vista, per inasprire la lotta, con ogni mezzo, lecito o illecito, a quello che definiscono “il terrorismo curdo”, che per i turchi oggi è più pericoloso anche dell’ISIS.

Can Dundar ed Erdem Gul, giornalisti di Cumhuriyet

Can Dundar ed Erdem Gul, giornalisti di Cumhuriyet

La questione curda è una tegola pesante sul percorso di adesione della Turchia all’Unione Europea, che si aggiunge all’arresto dei giornalisti Can Dundar e Erdem Gul, rispettivamente direttore e caporedattore di Cumhuriyet, quotidiano di opposizione. L’accusa nei loro confronti sarebbe quella di aver pubblicato materiale in violazione di segreto di Stato, per un reportage in cui documentavano il passaggio di camion carichi di armi tra Turchia e Siria. In particolare, venivano svelati i metodi con cui l’intelligence turca forniva armi ai ribelli siriani. Erdogan lo ha definito un “tradimento”. Per il presidente turco il reportage faceva parte di un piano più ampio volto a sabotare il piano di aiuti del governo alla minoranza turcomanna in Siria, con l’unico scopo di danneggiare l’immagine del partito al potere, AKP. Ma la questione sulla libertà di stampa in Turchia non è affatto nuova! Dopo aver oscurato due canali ostili a Erdogan, Bugun TV e Kanalturk, gli amministratori nominati dal tribunale che hanno assunto la gestione del gruppo editoriale di opposizione Ipek hanno bloccato anche la pubblicazione dei due quotidiani di riferimento del gruppo, Bugun e Millet.

L’Europa non potrà tacere davanti a tutto questo. Chissà … Certamente, ha taciuto davanti alle denunce di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani cui incorrono i rifugiati siriani in Turchia, visto che ha concesso ben 3 miliardi di euro al governo di Erdogan per contenere i flussi migratori verso l’Europa. Chissà come lo farà, visto che secondo quanto riportato da Andrew Gardner, ricercatore di Amnesty International sulla Turchia, “La Turchia è chiaramente in difficoltà nel cercare di venire incontro alle più elementari necessità di centinaia di migliaia di rifugiati siriani. Il risultato è che molti di quelli che sono riusciti a varcare il confine sono stati abbandonati a una vita di stenti. L’assistenza umanitaria offerta dalla comunità internazionale è stata vergognosamente bassa ma anche la Turchia deve fare di più per richiederla e facilitarla. Mentre ufficialmente la Turchia tiene i confini aperti ai rifugiati siriani, la realtà raccontata da molti di coloro che cercano di fuggire dalla guerra è diversa: una realtà fatta di respingimenti verso le zone dei combattimenti, in alcuni casi anche con colpi d’arma da fuoco“. 

E’ chiaro quindi che Erdogan rappresenta a questo punto un freno intollerabile per lo sviluppo umano, culturale e sociale del suo Paese, oltreché una fonte di grande instabilità per tutto il Medio Oriente. Le voci sempre più insistenti che vorrebbero una sua complicità con le azioni del Califfato dovrebbero far riflettere la comunità internazionale sull’opportunità che Erdogan finalmente se ne vada, consentendo così alla Turchia di riprendere quel cammino verso la modernità e la laicità che con la sua presidenza si è drammaticamente interrotto, e al popolo curdo di costruirsi finalmente quella Patria per la quale lottano da fin troppo tempo.

Per fare il Ministro non serve la laurea

di Fabiano Catania

Ci hanno insegnato che per essere qualcuno devi studiare. Ci hanno detto che la laurea è fondamentale se vorrai ricoprire un giorno incarichi importanti e guadagnare bene.

Ci hanno etichettati come “bamboccioni” se a 30 anni siamo ancora a casa dei genitori, “choosy” se non accettiamo il loro modello di sfruttamento gratuito mascherato da formazione.

Oggi invece, quando pensi di averne sentite abbastanza, leggi le dichiarazioni del ministro del lavoro Poletti: “Laurea a 28 anni con 110 e lode? Non serve a niente, meglio a 21 con 97″. Qualcuno diceva che “non c’è mai fine al peggio” ma forse quel qualcuno non si riferiva all’Italia

fonte: www.ilfattoquotidiano.it

Il ministro Poletti, allora dirigente della Lega Coop, a cena con alcuni imputati di Mafia Capitale

Già, quel Paese governato da una classe dirigente mai competente per il ruolo che ricopre ma che non si astiene mai dal dispensare consigli e consulenze per i giovani. Fa specie certamente leggere le dichiarazioni di un ministro come Poletti, esponente storico delle cooperative rosse oggi immischiate in ogni forma di reato, che per il suo delicatissimo ruolo non ha avuto bisogno della laurea ma gli è bastato un qualificatissimo diploma di perito agrario. Ma non è il solo: il governo Renzi, è vero, è il più giovane in base alla media di età anagrafica (47,8 anni) eppure annovera nella sua squadra personaggi dalla discutibile competenza: oltre al ministro Poletti, infatti, il Ministero della Salute è saldamente nelle mani di Beatrice Lorenzin che, dall’alto del suo diploma di maturità classica, lo amministra con rara abilità.

Che dire poi del Ministero della Giustizia?

Di certo il Ministro della Giustizia Orlando come minimo sarà un avvocato e forse addirittura un magistrato. Niente di tutto ciò: maturità scientifica. Confesso di aver cercato su internet tra gli sbocchi lavorativi del suddetto liceo ma non ho trovato la voce “ministro della giustizia” quindi probabilmente ho commesso un grave errore quando scelsi la scuola da frequentare anche perché nemmeno tra gli sbocchi occupazionali del liceo classico ho trovato “Ministro della Salute”. Ma si sa, in Sicilia non funziona niente, magari avrei dovuto frequentare il liceo da un’altra parte.

Dunque tre dei ministeri più importanti del nostro governo sono in mano a soggetti che non hanno studiato le materie per cui dovrebbero essere competenti. Secondo un grafico pubblicato da Linkiesta, il 23,5% di coloro che ci governano non ha nemmeno la laurea. Quella fornita dal magazine è una fotografia impietosa di un Paese che predica bene e razzola male e noi giovani dobbiamo continuare a berci le favolette sulla meritocrazia e sullo studio.

Basta dare uno sguardo oltre i nostri confini per accorgersi che in Germania, nella squadra di governo della Merkel, è presente un solo non laureato mentre in Francia tutti i ministri hanno almeno la laurea.

Negli USA il “degree” invece è solo il primo step: pochissimi quelli che possiedono “solo” la laurea, moltissimi quelli con master e PhD. Se si va un po’ più a Nord ci si imbatte poi nel “sorprendente” Canada. Leggendo la lista dei neo ministri canadesi si rimane sconvolti: sono tutti al posto giusto, 15 donne e 15 uomini. Per fare alcuni esempi, il ministro della Salute è un vero medico; il Ministro per la Scienza è un premio Nobel; Il ministro per le Istituzioni Democratiche è una rifugiata musulmana; il ministro dei trasporti è un astronauta e addirittura il ministro per le donne è una donna.

Chissà cosa è passato nella testa del primo ministro canadese Trudeau quando ha stilato questa lista. 

fonte: www.ilpost.it

La squadra di Governo canadese

Se ogni storia ha la sua morale, questa che ho provato a raccontare probabilmente ne ha più di una: non importa quello che i politici diranno di noi, ci criticheranno sempre anche quando sarebbe meglio restare in silenzio.

Vivere in Italia è difficile: ogni giorno questo Paese mette a dura prova la nostra voglia di rimanere qui ma quando sarete sul punto di dire: “Adesso veramente basta, lascio tutto e vado via”, fermatevi un attimo e riflettete perché un motivo per restare c’è: date uno sguardo al vostro Curriculum, sia esso in formato europeo o meno. Probabilmente sarà molto più qualificato di buona parte del governo italiano.

Magari non potrete fare i ministri dato che sarete troppo competenti ma c’è sempre la formazione, ovviamente a titolo gratuito.

Il Fukushima del Brasile: Quando dinheiro é mais importante do que meio ambiente

“The steps taken by the Brazilian government, Vale and BHP Billiton to prevent harm were clearly insufficient. The Government and companies should be doing everything within their power to prevent further harm, including exposure to heavy metals and other toxic chemicals”.

Sono le parole di una parte del report rilasciato dai due esperti indipendenti delle Nazioni Unite, John Knox e Baskut Tuncak, riguardo quello che è stato definito “il più grande disatro ambientale della storia del Brasile”. 

A cosa si riferiscono? All’ennesimo episodio in cui il potere del dio denaro distrugge gli ecosistemi e le loro creature e vite umane. E’ successo che il 5 novembre, la città di Mariana, nello stato brasiliano di Minas Gerais, è stato invaso da tonnellate di rifiuti tossici,conseguenza della rottura di due dighe. Questo materiale altamente inquinante è poi confluito nel Rio Doce, il Fiume Dolce.Riportando l’analisi catastrofica di Know e Tuncak: “The scale of the environmental damage is the equivalent of 20,000 Olympic swimming pools of toxic mud waste contaminating the soil, rivers and water system of an area covering over 850 kilometers” (La portata del danno ambientale è l’equivalente di piscine olimpioniche lunghe 20,ooo chilometri contenenti rifiuti tossici che stanno contaminando suolo, fiumi, il sistema idrico di un’area che copre 850 km). Tutta l’area ora contaminata ha assunto un colore arancione, che, se non fosse il risultato di un’ecatombe ambientale, ricorderebbe quello delle foglie autunnali.Ma il paesaggio non è degno di una fotografia da mandare come cartolina ai propri amici e alle proprie famiglie. E’ una cartolina della vergogna da mandare al governo brasiliano, alla ditta responsabile della manutenzione di quelle dighe, la Samarco Mineracao Sa, e ai colossi delle miniere che finanziano tale ditta, Bhp Billiton e  Vale. 

La loro noncuranza ha causato:

-11 morti;

-15 dispersi;

-Estinzione di alcune specie ittiche

Il Rio Doce dovrà impiegare secoli per recuperare il suo stato di salute originale. Infatti, gli esperti delle Nazioni Unite hanno ascoltato i pareri di altri scienziati e hanno constato che “The Doce Riveris  is now considered  to be dead and the toxic sludge is slowly working its way downstream towards the Abrolhos National Marine Park where it threatens protected forest and habitat. Sadly the mud has already entered the sea at Regencia beach a sanctuary for endangered turtles and a rich source of nutrients that the local fishing community relies upon.”  (Il Fiume Doce è ora considerato morto e il fango tossico si sta lentamente dirigendo verso il Parco Nazionale Marino Abrolhos dove minaccia foreste e habitat protetti. Purtroppo, il fando è già arrivate alla spiaggia di Regencia, un santuario per le tartarughe in via d’estinzione e una ricca fonte di nutrienti su cui la comunità locale di pescatori conta).

Il silenzio dei media (tanto locali quanto internazionali) è assordante. Perchè abbiamo saputo solo ora di questo disastro ambientale? Inoltre, la popolazione locale si sta interrogando sulle prossime mosse del governo brasiliano, che si è limitato a dire che provvedimenti sarebbero stati presi per contenere i danni. “E intanto si intascano i soldi delle compagnie minerarie senza fare tante storie” mormorano per le estradas brasiliane. 

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“There may never be an effective remedy for victims whose loved ones and livelihoods may now lie beneath the remains of tidal wave of toxic tailing waste, nor for the environment which has suffered irreparable harm. Prevention of harm must be at the center of the approach of business whose activities involve hazardous substances and wastes”  (Non ci potrà mai essere un rimedio effettivo per le vittime,i cui cari e mezzi di sussistenza potrebbero ora trovarsi sotto le spoglie di marea di rifiuti tossici, o per l’ambiente che ha subito un danno irreparabile. La prevenzione del danno deve essere al centro dell’approccio di affari le cui attività coinvolgono sostanze e rifiuti rischiosi).

E’ il monito con cui si conclude il report di Knox e Tuncak. Un monito che nulla può ormai contro lo scempio consumato in nome degli affari e degli intrecci tra multinazionali e attori politici.

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Parigi: il fallimento del modello di integrazione francese? Intervista a Jean-Yves Le Léap

Di Antonietta Bivona

“Quello che è successo a Parigi, la notte del 13 novembre, è una tragedia – è chiaro –, ma quando mi hanno svegliato per dirmelo, tristemente ho risposto: “me l’aspettavo”. Sapevo che sarebbe successo.”

È un parigino a pronunciare queste parole a qualche giorno dagli attentati di Parigi. Ero all’università e assistevo ad una conferenza dal titolo “Conoscere il mondo arabo-islamico”, durante la quale si è dedicato qualche minuto agli attacchi di Parigi di qualche giorno prima. Ad un certo punto, è il professor Jean-Yves Le Léap, lettore di lingua straniera presso l’Università di Catania, a prendere la parola con un intervento che ha probabilmente sorpreso la maggior parte dei presenti. Un discorso che da un francese non ti aspetti, un discorso che pone l’accento su una questione che è stata sottovalutata dai media italiani e internazionali: il fallimento del modello di integrazione francese. A distanza di qualche giorno, infatti, l’emozione, lo shock e le reazioni a caldo cominciano a lasciare spazio a qualcosa di costruttivo, alla riflessione: si comincia a ponderare con più lucidità quello che è accaduto, e a proposito di lucidità, mi è sembrato che il discorso del professore Le Léap ne avesse parecchia. Lucidità e onestà che si sono espresse in un’accuratissima analisi sull’integrazione in Francia negli ultimi decenni.

Il giorno dopo sono andata a scambiare quattro chiacchiere con lui, ne è venuta fuori una breve intervista. Ve la riporto:

Professore, è la seconda volta, in un anno, che la Francia viene colpita da attacchi terroristici: il 7 gennaio 2015 con l’attacco alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, provocando la morte di dodici persone; e venerdì scorso con un attentato senza precedenti, che ha visto 7 attacchi contemporanei mettere a ferro e a fuoco la città. Perché, secondo lei, la Francia è stata presa di mira per ben due volte in un solo anno?

Difficile rispondere. Quello che sta succedendo è una guerra e in una guerra ci sono dei vincitori e degli sconfitti e – per dirla molto grossolanamente – in questo caso, una volta vince lo Stato francese e una quello islamico. Se si poteva fare qualcosa? Pare che ci sia stata una lacuna da parte dei servizi di intelligence. Le forze di polizia erano già state aumentate a partire gennaio, mese in cui è entrato in vigore un piano speciale antiterroristico (Plan Vigipirate) che instaura lo stato di massima allerta con controlli a tappeto da parte di tutti i corpi di polizia francese. Il problema, però, in questo caso, è stato il lavoro d’intelligence. In tempi di crisi tutti i governi cercano di risparmiare (non solo quello francese) sugli effettivi della polizia e soprattutto sui mezzi tecnici e tecnologici per avere delle informazioni. Uno dei primi intervistati, l’ex capo di uno dei corpi speciali, diceva che, quando sono chiamati ad intervenire perché c’è un attacco in corso, la situazione è difficile da gestire, non può intervenire il poliziotto di strada e, nel momento in cui si arriva sul posto, la strage è già compiuta. L’unico modo è prevenire. Come? Sviluppando i mezzi d’intelligence per arrestare preventivamente questi terroristi e smantellare queste cellule. Questo si può fare solo avendo abbastanza uomini a disposizione e sviluppando le tecnologie. Da questo punto di vista la Francia è stata un po’ superficiale.

Che senso ha lo stato di allerta in questo momento e la chiusura delle frontiere?

“Chiusura delle frontiere”: mi piace quest’espressione grossolana che usate voi italiani. Da noi “fermer le frontières” lo dice solo Marine Le Pen. In ogni caso, si tratta di ristabilire i controlli all’interno dello spazio Schengen, mi sembra giusto farlo, e lo stesso Trattato Schengen lo prevede. Ma sono misure che lasciano il tempo che trovano, perché il nemico ce l’abbiamo dentro casa. Chi commette questi attentati non viene da fuori, sono i francesi stessi. Quindi tutta la difesa francese va riorganizzata: siamo abituati ad una mentalità che concepisce la difesa contro un nemico che viene dall’esterno, mentre non è così.

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Venerdì sera è stata colpita la Francia, ma anche tutta l’Europa, i suoi valori, il suo stile di vita – non a caso sono stati colpiti il X e soprattutto l’XI arrondissements che sono luoghi più frequentati dai giovani, dove lo stile di vita della società occidentale si esprime in tutte le sue forme –, quale dovrebbe essere secondo lei la risposta? Dopo venerdì è stato dichiarato lo stato di emergenza e, allo stesso tempo, i servizi pubblici sono stati ridotti e le manifestazioni pubbliche vietate – addirittura sono stati vietati i rassemblements per piangere i morti. Si parla di limitare la libertà per difendere la libertà, non è un paradosso? Perché questa risposta? E quanto è utile?

Io qui sarei molto più prosaico. Semplicemente la legge sul coprifuoco prevede la chiusura di strade, piazze, divieti di manifestazione e possibilità di perquisire. È una decisione presa senza nessuno stato d’animo.

Questo non è, però, fare il gioco dei terroristi?

Come diciamo in Francia, “il faut savoir ce qu’on veut”. Bisogna sapere cosa si vuole. Cosa vogliamo fare noi? Vogliamo lottare contro il terrorismo e capire che in uno stato di guerra vengono revocate le libertà fondamentali per una questione di salvaguardia, di sopravvivenza dei popoli? Oppure vogliamo lasciare le cose così come stanno per non fare il gioco dei terroristi? Io non ho una risposta, ma lo stato francese si sta orientando sul fronte repressivo. A tal proposito, bisogna aggiungere che Hollande non è molto popolare in Francia in questo momento, è molto criticato dalla destra per la sua politica lassista, e quindi usare metodi che possono sembrare repressivi (e forse lo sono) è sicuramente una manovra di politica interna che mira a recuperare i consensi. Si comincia, infatti, a parlare delle prossime elezioni nel 2017 e si prendono certi provvedimenti per vincerle: se non Hollande, quantomeno il partito socialista. C’è un gioco di politica interna di cui si sa poco all’estero.

Nel suo intervento al convegno di martedì 17, lei ha detto, molto onestamente e lucidamente, che prima di parlare di sicurezza, di repressione, bisognerebbe andare alla radice del problema: nel fallimento del modello di integrazione francese. Lei crede che sia davvero così? In cosa consiste questo fallimento, quali sono le motivazioni che ne stanno alla base e le conseguenze?

Ci vorrebbero ore per spiegare questa realtà francese. Partiamo da quello che sanno tutti: la Francia è una terra di immigrazione. Nel periodo post-coloniale, sono arrivati in Francia molti migranti, i quali oggi hanno preso la cittadinanza francese e hanno avuto figli e nipoti. Per questo in Francia si parla di immigrati di seconda e terza generazione, ma che in realtà sono francesi. Molti di loro non sono mai stati nella loro terra d’origine e a stento parlano la loro lingua madre, ma a causa della loro estrazione popolare, del loro colore di pelle, dell’origine araba del loro cognome sono oggetto di discriminazione. Quando vivevo ancora in Francia – tra gli anni ‘70/’80 – venivano chiamati “arabi”, ora è cambiato il lessico: vengono chiamati “musulmani”, che guarda caso è lo stesso modo in cui i francesi chiamavano i non francesi in Algeria all’epoca in cui l’Algeria era una colonia francese. Quindi a livello di terminologia siamo in presenza di una tremenda involuzione, e se sappiamo che le parole riflettono i concetti (spesso li creano), la stigmatizzazione di questi giovani francesi, che vengono additati come “musulmani”, genera delle conseguenze gravissime: essi vengono affascinati da una realtà islamica che si prospetta loro fuori dai confini francesi. Ecco, come a un certo, punto diventa molto facile allontanarsi da una realtà francese, dalla quale sono rigettati, per abbracciare l’ideale jihadista. Una volta che non riesci ad identificarti con la società della quale fai parte, l’identità te la devi costruire e paradossalmente te la costruisci con l’immagine che ti rimandano di te stesso: un musulmano aggressivo e che si deve vendicare. Internet fa il resto.

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Nel concreto, secondo lei, cosa si potrebbe fare per arginare questo fenomeno e per favorire l’integrazione quotidiana?

Questi atti terroristici non sono altro che la conseguenza di una situazione che si vive in Francia da decenni. Quindi cosa si potrebbe fare? Non si è risolto il problema negli ultimi sessant’anni, nonostante i vari provvedimenti, e adesso è difficile. Le soluzioni si cercano e si continueranno a cercare, ma si tratta di politiche su lungo corso.

A proposito del modello di integrazione francese, lei che vive tra la Francia e l’Italia, cosa ne pensa di quello italiano? Come vede la situazione italiana nei confronti degli immigrati?

Io sono arrivato in Italia negli anni ‘80, e all’inizio vedevo che gli italiani avevano una buona considerazione degli immigrati ed erano poco razzisti sia nella mentalità che nelle parole, avendo vivo il ricordo delle migrazioni italiane all’estero negli anni precedenti. Oggi, invece, sento parole sconvolgenti, assisto ad episodi di odio e di razzismo che noi non abbiamo mai raggiunto in Francia. Noi ci abbiamo impiegato sessant’anni per formare i jihadisti. Se l’Italia continua di questo passo, temo che li avrà tra un paio di mesi al massimo.

A proposito di integrazione, e a un livello strettamente politico, quali conseguenze potrebbero avere in Francia gli attentati di venerdì? A poche settimane dal voto per le regionali, sembra che il Front National sia in ascesa. I sondaggi precedenti agli attentati davano già il FN come primo partito, dopo gli attentati i consensi aumentano. Marine Le Pen, dopo un incontro con Hollande ha dichiarato: «Siamo d’accordo con questo stato d’emergenza a patto che si decida finalmente di andare a disarmare le banlieues». Lei crede che gli eventi dell’ultima settimana porteranno davvero il Front National a vincere? E che conseguenze potrebbe avere sulle banlieues francesi e sul modello di integrazione?

È difficile dirlo. Che il Front National sia in ascesa è certo. Bisogna vedere se questi attentati favoriranno la sua ascesa o se essa sarà legata ad un suo normale percorso politico a prescindere. È troppo presto. Da quel che vedo, si sta dando a Marine Le Pen il tempo di parola sui media minimo, quello necessario per par condicio. Piuttosto che disarmare le banlieues bisognerebbe impedire che si armino maggiormente. Il punto è sempre quello.

Un’ultima domanda: non so se lei ha un profilo Facebook, ma negli ultimi giorni moltissime persone hanno impostato come immagine del profilo la bandiera francese per mostrare solidarietà nei confronti della Francia e delle vittime degli attentati. Però riflettevo su una cosa: il giorno prima degli attentati di Parigi, a Beirut 50 persone sono morte in un attentato; 111 persone sono state uccise in Palestina nelle ultime settimane, per non parlare delle vittime ad Ankara durante una manifestazione pacifica. In nessuna di queste occasioni, alcuna bandiera è stata utilizzata per mostrare solidarietà. Perché, secondo lei? Perché per la Francia mostriamo solidarietà, vicinanza – la stiamo mostrando in questi giorni, l’abbiamo mostrata per Charlie Hebdo – mentre per altri paesi che vivono avvenimenti della stessa portata no?

Da francese, è chiaro che mi fa piacere sentirlo. In effetti, però, questa cosa mi stupisce e la stessa domanda me la sono posta io stesso. C’è chi pone l’accento sulla vicinanza culturale e voglio sperare che sia solo questo. Oppure gli italiani hanno capito che il pericolo si sta avvicinando e solidarizzare con la Francia è un modo per esorcizzare le proprie paure.

Ha ancora senso essere femministe? Un articolo di Stefania Noce

“Queste righe sono per quelle donne che non hanno ancora smesso di lottare. Per chi crede che c’è ancora altro da cambiare, che le conquiste non siano ancora sufficienti, ma le dedico soprattutto a chi NON ci crede. A quelle che si sono arrese e a quelle convinte di potersi accontentare. A coloro i quali pensano ancora che il “femminismo” sia l’estremo opposto del “maschilismo”: non risulta da nessuna parte che quest’ultimo sia mai stato un movimento culturale, nè, tantomeno, una forma di emancipazione! Cominciando con le battaglie inglesi delle suffragette del primo Novecento e passando per gli anni ’60 e ’70, epoca dei “femminismi”, abbiamo conquistato con le unghie e con i denti molti diritti civili che ci hanno permesso di passare da una condizione di eterne “minorenni” sotto “tutela” a una forma di autodeterminazione sempre più definita. Abbiamo ottenuto di votare e, solo molto dopo, di avere alcune rappresentanze nelle cariche governative; siamo state tutelate dapprima come “lavoratrici madri” e, solo dopo, riconosciute come cittadini. E mentre gli altri parlavano di diritto alla vita, di “lavori morali” e di dentalità, abbiamo invocato il diritto a decidere della nostra sessualità dei nostri corpi. Abbiamo denunciato qualsiasi forma di “patriarcato”, le sue leggi, le sue immagini. Pensavamo di aver finito. Ma non è finita qui. Abbiamo grandi debiti con le donne che ci hanno preceduto. Il corpo delle donne, ad esempio, in quanto materno, è ancora alieni iuris per tutte le questioni cosiddette bioetiche (vedi ultimo referendum), che vorrebbero normarlo sulla base di una pretesa fondata sulla contrapposizione tra creatrice e creatura, come se fosse possibile garantire un ordine sensato alla generazione umana prescindendo dal desiderio materno. Di questa mostruosità giuridica sono poi antecedenti arcaici la trasmissione obbligatoria del cognome paterno, la perdurante violabilità del corpo femminile nell’immaginario e nella pratica sociale di molti uomini e, infine, quella cosa apparentemente ineffabile che è la lingua con cui parliamo, quel tradimento linguistico che ogni donna registra tutte le volte che cento donne e un ragazzo sono, per esempio, andati al mare. Tutto, molto spesso, inizia nell’educazione giovanile in cui è facile rilevare la disuguaglianza tra bambino e bambina: diversi i giochi, la partecipazione ai lavori casalinghi, le ore permesse fuori casa. Tutto viene fatto per condizionare le ragazze all’interno e i ragazzi all’esterno. Pensiamo poi ai problemi sul lavoro e, dunque, ai datori che temono le assenze, i congedi per maternità, le malattie di figli e congiunti vari, cosicchè le donne spesso scelgono un impiego a tempo parziale, penalizzando la propria carriera. Un altro problema, spesso dimenticato, è quello delle violenze (specie in famiglia). Malgrado i risultati ottenuti, ancora nel 2005, una donna violentata “avrà avuto le sue colpe”, “se l’è cercata” oppure non può appellarsi a nessun diritto perchè legata da vincolo matrimoniale al suo carnefice. Inoltre, la società fa passare pubblicità sessiste o che incitano allo stupro; pornografie e immagini che banalizzano le violenze alle donne. Per non parlare di quanto il patriarcato resti ancora profondamente radicato nella sfera pubblica, nella forma stessa dello Stato. Uno Stato si racconta attraverso le sue leggi, attraverso i suoi luoghi simbolici e di potere. Il nostro Stato racconta quasi di soli uomini e non racconta dunque la verità. Da nessuna parte viene nominata la presenza femminile come necessaria e questo, probabilmente, è l’effetto di una falsa buona idea: le donne e gli uomini sono uguali, per cui è perfettamente indifferente che a governare sia un uomo o una donna. Ecco il perchè di un’eclatante assenza delle donne nei luoghi di potere. Ci siamo fatte imbrogliare ancora. Ma può un paese di libere donne e uomini liberi essere governato e giudicato da soli uomini? La risposta è NO. Donne e uomini sono diversi per biologia, per storia e per esperienza. Dobbiamo, quindi, trovare il modo di pensare a un’uguaglianza carica delle differenze dei corpi, delle culture, ma che uguaglianza sia, tenendo presente l’orizzonte dei diritti universali e valorizzandone l’altra faccia. Ricordando, ad esempio, che la famiglia non ha alcuna forza endogena e che è retta dal desiderio femminile, dal grande sforzo delle donne di organizzarla e mantenerla in vita attraverso una rete di relazioni parentali, mercenarie, amicali ancora quasi del tutto femminili; ricordando che l’autodeterminazione della sessualità e della maternità sono OVUNQUE le UNICHE vie idonee alla tutela delle relazioni familiari di fatto o di diritto che siano; ricordando che le donne sono ovviamente persone di sesso femminile prima ancora di essere mogli, madri, sorelle e quindi, che nessuna donna può essere proprietà oppure ostaggio di un uomo, di uno Stato, nè, tantomento, di una religione.”

FONTEhttp://www.centrodonnalisa.it/comunicati/Ha%20ancora%20senso%20essere%20femministe.pdf

Abbi, Donna, il coraggio di denunciare #25novembre

Di Antonietta Bivona e Chiara Grasso

Grazie alla risoluzione ONU 54/134 del 17 dicembre del 1999, che ha istituito la “Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, il 25 novembre di ogni anno è diventato uno di quei giorni in cui media e social network si mobilitano affinché ognuno di noi ricordi che le donne quotidianamente subiscono violenze. Si fa a gara per contare le vittime, si tirano fuori numeri, statistiche; in tv si parla di prevenzione, si trasmettono spot con donne dai lividi perfettamente studiati, figure istituzionali si schierano a favore di questo o quell’altro. Si parla, si discute, si ostenta solidarietà e ci si definisce femministi. Nel frattempo gli stereotipi continuano, le violenze pure, e il giorno dopo tutto torna come prima.

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Ma ogni giorno, dal primo giorno dalla storia dei tempi, cosa succede realmente?

I numeri delle vittime di violenze di genere dimostrano tutt’altro che i buoni propositi e la caparbietà che, in una giornata istituita come giornata del ricordo, tutti ostentano. Ogni giorno una donna muore a causa della violenza. Ogni giorno più di una donna, in qualsiasi parte del mondo, subisce violenza. Violenza che va da quella fisica, passa per quella sessuale e arriva fino alla peggiore: quella psicologica, sopruso che si protrae nel tempo che uccide lentamente l’animo.

I numeri sono agghiaccianti, ma contano poco. Domani li scorderemo. Ma dal punto di vista pratico, da quello giuridico, quali tutele esistono oggi e quali possiamo ritenere effettivamente valide?

In Italia, la legislazione penale degli ultimi anni sembra essersi sensibilizzata. Il senato ha adottato all’unanimità una mozione unitaria firmata da tutti i partiti per invitare il governo a ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. Entro la fine di questa legislatura, il Governo si dovrà impegnare a realizzare norme che disciplinino con maggiore imperatività gli atteggiamenti discriminatori e violenti, fornendo – dal punto di vista sostanziale e processuale – “maggiori tutele”, dal mobbing sul lavoro al dramma delle cosiddette dimissioni in bianco, dalle violenze domestiche a quelle sessuali.

Sul fronte della violenza domestica e mobbing, il legislatore ha riscritto l’art. 572 del codice penale,
ampliando il reato alle ipotesi di maltrattamento contro i familiari e i conviventi. Anche la pena edittale è aumentata: dai due ai sei anni di reclusione. Inoltre, se la disciplina riguardante le intercettazioni telefoniche restasse immutata, per il reato sopra novellato è prevista la possibilità di procedere ad intercettazioni di conversazioni o comunicazioni fra presenti, collocando degli strumenti di ascolto nelle abitazioni, nelle comunità o nei luoghi di lavoro dove sono in essere attività violente nei confronti della vittima.

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Anche sul fronte dei maltrattamenti in famiglia si è intervenuto: il termine di prescrizione del reato – dapprima di sette anni e sei mesi per tutti e tre i gradi di giudizio – è stato raddoppiato. In tal modo, infatti, la vittima non rischia più la mancata tutela a causa della beffa della prescrizione, vista la irragionevole durata dei processi. Una forte tutela processuale della vittima di violenza domestica o sessuale deriva poi dalla possibilità, già introdotta con la legge in materia di stalking ma scarsamente praticata, di procedere all’assunzione anticipata della testimonianza con la formula dell’incidente probatorio, durante la fase delle indagini preliminari. Tale previsione permetterebbe alla donna di uscire dal circuito processuale senza necessità di essere richiamata, magari dopo molti anni, con la possibilità di essere sottoposta a pressioni esterne per ridimensionare quanto già precedentemente dichiarato o a rivivere la sua drammatica esperienza.

Inoltre, si auspica un maggiore intervento a livello penale europeo volto a debellare tali atteggiamenti che pongono la donna in una posizione di subordinazione alla figura maschile.

Ma nel frattempo? Le violenze continuano, i “festeggiamenti” del 25 novembre, ahinoi, pure.

Conducendo delle ricerche in proposito, ci siamo accorte che i motivi e i meccanismi che stanno alla base della violenza sulle donne non sono nuovi. Anzi, sono vecchissimi. E sono sempre gli stessi: a partire già dalla mitologia classica che vanta una serie di innumerevoli casi, che trovano corrispettivo e applicazione anche oggi. Dall’infelice storia della bella Persefone, rapita da Ade invaghitosi di lei, a quella della ninfa Eco che pur di sfuggire a Pan, dio dei boschi e uno degli stupratori più temuti dell’Olimpo, si trasforma in voce. Come lui, moltissimi altri dèi e 01232personaggi maschili assumevano varie sembianze e utilizzavano stratagemmi vari pur di circuire le loro vittime: cambiando aspetto, improvvisandosi giovani e dolcissimi amanti e mariti, e mescolandosi perfettamente con la realtà tanto da non essere percepiti per quel che realmente sono: un pericolo violento. Non è quello che accade anche ai giorni nostri? È un circolo che si perpetua nel tempo. Oggi, infatti, solo una piccolissima percentuale delle violenze sessuali è consumata da sconosciuti, mentre per la grande maggioranza si tratta di aggressori che le vittime conoscono benissimo.

Ma dalla mitologia classica arrivano anche dei bellissimi esempi di denuncia, ed è con questi che vogliamo lasciarvi: col mito di Aracne, una giovane ragazza che ha il coraggio di denunciare stupri e abusi a dispetto di ciò che la società benpensante vuole sentire e a discapito delle conseguenze che la vedono trasformata in ragno per aver buttato giù il muro di omertà che la circondava; e con la figura di Filomena, silenziosa tessitrice, vittima di soprusi e violenze, che tramite i ricami nel proprio abito tenta di lanciare segnali di aiuto che solo un osservatore attento può riuscire a cogliere. La figura di Filomena è forse quella che più rappresenta quel 90% di donne che oggi non denuncia un abuso, quel 90% che per motivi culturali, ideologici o per paura, rimane in silenzio a lanciare segnali criptati che sono difficili da decifrare. A tutte le Filomena di oggi, noi vogliamo lanciare un messaggio, che vada al di là di questa giornata e che persista ancora domani: abbi, Donna, il coraggio di denunciare!

Quel classico dolce Siciliano che tanto piaceva a Marco Tullio Cicerone

di Liborio Alessandro Di Franco

“Tubus farinarius, dulcissimo, edulio ex lacte factus”. Questo non è l’incipit di una versione di latino bensì è la definizione che il console romano, Marco Tullio Cicerone diede del dolce siciliano per antonomasia durante la sua permanenza nelle vesti di questore  a Lylibeum (l’odierna Marsala), prima di diventare console romano destinato a fama imperitura. (tubo farinaceo ripieno di latte per un dolcissimo cibo)

” Tubus farinarius , dulcissimo , edulio former lacte factus ” . This is not the beginning of a Latin version but the definition that the Roman consul, Cicero, gave to the Sicilian dessert par excellence during his role of superintendent in Lylibeum (modern Marsala ), before becoming Roman consul intended to everlasting fame. (starchy tube  filling of milky sweet food ). cannolo

Il cannolo siciliano vanta antichissime e controverse origini, ciò che sappiamo di certo è che le sue radici risalgono alla dominazione araba in Sicilia (dal 827 al 1091), ma la loro storia è  immersa tra il sacro e il profano.

The Sicilian cannoli boasts ancient and controversial origins, what we know for sure is that its roots go back to Arab domination in Sicily ( 827-1091 ) , but their history  is set between the sacred and the profane .

Secondo una leggenda la nascita dei cannoli sarebbe avvenuta a Caltanissetta, “Kalt El Nissa” locuzione che in arabo significa “Castello delle donne”, a quei tempi sede di numerosi harem di emiri saraceni, A rafforzare ancor di più questa leggenda è l’etimologia stessa del temine “Kalt El Nissa”.

According to a legend, the history of cannoli would occur in Caltanissetta , ” Kalt El Nissa ” term which in Arabic means ” Castle of women “, at that time full of many harem of Saracen  emirs , to strengthen this legend it’s the etymology of the term ” Kalt El Nissa ” .

Si narra che le concubine dell’emiro per trascorrere il tempo, si dedicassero alla preparazione di varie  prelibate pietanze, in particolare di dolci e in uno dei tanti esperimenti culinari avrebbero “inventato” il cannolo con evidente allusioni alle “dotidel sultano.

It is said that the emir concubines  would spend their free  time preparing various delicious dishes , especially desserts and in one of the many culinary experiments they made, they had ” invented ” cannoli with the obvious allusions to the ” qualities ” of the sultan .

Un’altra fonte, invece, tramanda che sempre nei pressi di Caltanissetta in occasione del Carnevale le monache “inventarono” un dolce formato da un involucro (“scorcia“) riempito da una crema di ricotta e zucchero ed arricchito con pezzetti di cioccolato e granella di mandorle ( cucuzzata ).

E’ evidente supporre, quindi,  sia che si tratti di suore o concubine, “queste donne, rese diverse dal voto di castità, probabilmente nel loro intimo non lo erano così tanto di fronte al piacere voluttuoso offerto dal magnifico dolce”.

Another source , however , tells that near Caltanissetta during Carnival nuns ” invented ” a sweet made ​​of a shell ( ” scorcia ” ) filled with a creamy cheese and sugar and enriched with chocolate chips and chopped almonds ( cucuzzata ) .

” These women made different by the vote of chastity, probably in their intimate preference didn’t witness such a great sensuous pleasure offered by the magnificent dessert.”

Intrecciando a queste leggende (se tali possano così essere realmente definite) ciò che realmente storicamente sappiamo, si può benissimo affermare che se è vero che la ricotta di pecora si produceva già in Sicilia, è anche vero che sono stati gli Arabi a lavorarla con canditi, pezzetti di cioccolato e ad aromatizzarla con liquori, dando vita ad un’accoppiata vincente, zucchero e ricotta , preludio dei dolci siciliani più famosi al mondo: la cassata ed i cannoli.

L’ipotesi sull’origine del sublime cilindro di ricotta, è descritta dal duca Alberto Denti di Pirajno, cultore di gastronomia in “Siciliani a tavola“,  per l’esattezza, si legge: “Il cannolo non è un dolce cristiano, ché la varietà dei sapori e la fastosità della composizione tradiscono una indubbia origine mussulmana” .

Weaving together these legends ( if it can be really defined as such ) with what we really historically know , it can be said that  even  if  curd  cheese was already produced  in Sicily,  it is also true that only the Arabs worked  it with candied , chocolate chunks and mixed it with liquor spirits , creating a winning , sugar and ricotta , prelude to the most famous Sicilian pastries in the world : the cassata and cannoli .

The hypothesis about the origin of the sublime ricotta cylinder , is described by Duke Albert Denti Pirajno , lover of gastronomy in ” Siciliani a tavola” , exactly , he said : ” Cannoli is not a Christian sweet, the variety of the flavors and the magnificence of the composition betrays an undeniable Muslim origin ” .

La tesi proposta potrebbe essere ben accettata in quanto con l’arrivo dei Normanni nell’isola e la cacciata degli Arabi, gli harem si svuotarono e molte donne, convertitasi al cristianesimo entrarono in convento; è sicuramente qui che potrebbero avere riprodotto alcune delle ricette con le quali avevano sedotto le corti degli emiri, trasmettendole in seguito alle “sante ancelle del Signore” e tutto ciò spiegherebbe l’intreccio.

Sebbene sia nato a Caltanissetta, il Cannolo siciliano deve gran parte della sua fama ai pasticcieri Palermitani che ne hanno personalizzato la ricetta e hanno dedicato a questo dolce straordinario più di una sagra,  (“Sagra del Cannolo Siciliano” a gennaio, e “Cannoli & Friends” a maggio), che si svolgono nella splendida cornice di Piana degli Albanesi.

This thesis could very well be  accepted because with the arrival of the Normans in the island and the expulsion of the Arabs , harems were emptied and many women , who converted to Christianity and entered the convent ; It is surely here that they could have repeated some of the recipes with which they had seduced the courts of the emirs , taking the similarity of  the ” holy  “handmaidens of the lord ” and everything would explain the plot . Although its history starts in  caltanissetta , sicilian cannoli owes much of its fame to the confectioners from palermo who personalized the recipe and  have dedicated  more than a festival to this extraordinary sweet, ( “festival of the sicilian cannoli ” in january and ” cannoli & friends ” in may ) , taking place in the beautiful setting of Piana degli Albanesi .

Ancora oggi le due scuole, quella di Palermo e quella di Caltanissetta hanno  delle differenze, sebbene il cannolo sia buonissimo in tutta la Sicilia

 La differenza principale è nella decorazione finale del dolce: pistacchi tritati di Bronte a Catania, diversamente da Palermo dove le estremità, secondo la tradizione, vengono decorate con filetti di scorza d’arancia candita. cannoli 1

Si tratta di un dolce, in tutto e per tutto siciliano, anche nei forti contrasti: nei colori, nel profumo, nel sapore, nella consistenza, e dall’intrigante forma cilindrica, conservatasi nel tempo. Giuseppe Coria evidenzia in uno studio sul rapporto tra la geometria e la simbologia che il suo aspetto rappresenterebbe la forma fallica. Il cannolo dunque esprimerebbe, un significato di fecondità, di forza generatrice, e di allontanamento delle influenze maligne.

Even today the two schools , one in Palermo and one in Caltanissetta have some differences, although all cannoli in Sicily are delicious.

The main difference is in the final decoration of the dessert : chopped pistachios from Bronte in the east coast , unlike Palermo , according to tradition , are decorated with threads of candied orange peel .

It is a sweet , in every way Sicilian, even in strong contrasts in colour , the aroma , the taste , the texture , and the intriguing cylindrical form , preserved  in time. Giuseppe Coria showed  in his studies the relationship between geometry and symbolism that his appearance would be the shape of a male intromittent organ . Cannoli therefore express , meaning of fertility , of generating power , and the removal of evil influences .

Note importanti:

1) I cannoli si riempiono al momento o poco prima di essere consumati, altrimenti la scorza si ammorbidisce e non sono più croccanti.

2) Un vero siciliano non adopera per arrotolare il cannolo i tubetti di alluminio, bensì dei tronchetti di canna vera e propria, generalmente di 3-4 cm di da qui è realmente derivato il nome di cannolo. La canna, essendo permeabile, permette l’agevole passaggio dello strutto durante la cottura.

3) Un cannolo siciliano autentico va preparato rigorosamente con ricotta di pecora.

Cordiali Saluti e alla prossima settimana con THE SICILIAN WAY!

Important notes :

1 ) Cannoli are filled exactly the moment or shortly before being consumed , otherwise the skin becomes soft and IS  no longer crisp .

2 ) A true Sicilian does not endeavor to roll up the cannolo with aluminum tubes , but of the cane briquettes, generally 3-4 cm this  is actually the  derivation of the name of cannoli . The cane tube , being permeable , allows the smooth passage of lard when cooking.

3 ) An authentic Sicilian cannoli be prepared strictly with sheep ricotta .

Regards and see you next week with THE SICILIAN WAY !

L’assedio di Bruxelles

di Walter Bressi

Paura, angoscia e incredulità. Sono senza dubbio queste le emozioni che si accavallano nel vedere e rivedere le immagini di una Bruxelles blindata e in totale stato di allerta. La Capitale d’Europa si piega alla logica del terrore e per una volta a far parlare i notiziari non è quello che accade all’interno dei suoi palazzi del potere, ma quello che accade sulle sue strade. Deserte, al limite dello spettrale, con qualche turista, perlopiù asiatico, che di tanto in tanto fa capolino per scattare qualche foto e non perdere l’opportunità di una visita programmata da chissà quanto tempo.bruxelles2

Fa senso vedere tutti i negozi chiusi e i militari a presidiare la Grand Place, uno dei luoghi simbolo della capitale belga, lì dove si affacciano il Municipio e la Maison du Roi, il Palazzo Reale. Immagini che fanno tanto più senso quanto più ci si lascia sedurre dal pensiero proibito che possano rivedersi anche in Italia, che di obiettivi sensibili, anche a detta della FBI, ne ha più di uno e che nelle logiche simboliche del fondamentalismo islamico rappresenta il centro spirituale dell’Occidente. Le statue dei santi, le croci, l’obelisco, il mosaico della Vergine Maria con in braccio il bambinello e sotto l’iscrizione “Totus tuus“. Tutto contribuisce a rendere Piazza San Pietro un enorme coacervo di blasfemia, agli occhi di questi esaltati. E le minacce dello Stato Islamico di issare la bandiera nera del Califfato sul Colosseo, già testimone plurisecolare delle ascese e delle cadute della Città Eterna, si fanno improvvisamente più credibili se associate ai tragici fatti di Venerdì 13.

Ma le paure non possono in alcun caso cedere il passo alla ragione. Possiamo dire che l’Europa sperimenta in questi giorni ciò che Israele vive da decenni. Sperimenta, perché nonostante l’ecatombe di Parigi le due realtà rimangono ancora non comparabili, dato che gli attacchi terroristici subiti da Israele nel solo 2015 ammontano (per ora) a 1735. Possiamo ancora solo lontanamente immaginare cosa significhi non sentirsi sicuri neanche nei più intimi momenti della vita quotidiana, nel recarsi a scuola, in ospedale o al mercato, o nel salire su un autobus. Possiamo solo immaginare cosa significhi rischiare di essere accoltellati mentre si prega, com’è accaduto a tre israeliani giovedì scorso, alla Sinagoga di Ben Tzvi Road, a Tel Aviv. L’Europa che incautamente ha voltato le spalle al suo alleato naturale nel Medio Oriente (non fosse altro perché, del Medio Oriente, è l’unica democrazia), ora si ritrova a fronteggiare minacce simili.

Allora, da Israele, bisogna imparare a reagire nello stesso modo, con determinazione e dignità. Solo così si può impedire a chi ha l’ambizione di fare a pezzi la nostra civiltà di realizzare il suo piano di divisione. Solo così possiamo continuare nelle nostre vite, sia pure con qualche preoccupazione in più nel vedere qualche tipo dal volto poco raccomandabile salire con noi sul bus. Nel frattempo, questa notte la polizia belga ha tratto in arresto altre 16 persone a Molenbeek, il quartiere multietnico di Bruxelles reso tristemente famoso dai fatti degli ultimi giorni. La capitale belga resterà in stato di assedio anche oggi. Scuole, centri commerciali, università, uffici, stazioni della metro, tutto chiuso. Un altro giorno nel deserto. Un altro giorno in trincea.

L’Edda poetica: la grandezza del mito e la grazia del verso

Di Martina Cimino

Frequentavo il liceo quando mi trovai a dover tradurre il Beowulf e altre ballate e poemi, nonché a ricostruire, un po’ con compiacenza ma, a dire il vero, anche con un po’ di noia, i versi dell’Iliade, dell’Odissea, dell’Eneide.

Mi sembrava un modo di scrivere così distante da quel che a me piaceva leggere nel tempo libero, così troppo funzionale alla didattica, che mai avrei pensato di andare a riprendere di mia spontanea volontà un’opera scritta in quel modo.
Col passare degli anni però,  i gusti letterari cambiano, e così in un grigio e freddo pomeriggio dell’ottobre di quattro o cinque anni dopo, mi ritrovo a gironzolare tra gli scaffali di una libreria pisana, alla ricerca di qualcosa che mi faccia distrarre, che sia diverso da quel che leggo di solito. Decido inaspettatamente di tuffarmi nella mitologia norrena e in particolare nella lettura dell’Edda, la raccolta mitopoietica che racconta le origini del mondo attraverso un corpus di storie che può, in un certo senso, considerarsi l’antenato del fantasy così come lo conosciamo oggi.

Ma eccomi subito di fronte ad una seconda scelta: leggere l’Edda in prosa oppure in versi?
Ebbene, nell’indecisione ne acquisto ambedue le versioni.
Credo, oggi, dopo averle lette entrambe ed esserne rimasta estasiata, che sia una delle opere più belle, più significative, più profonde e (contro ogni previsione) più scorrevoli, che io abbia mai letto.
Proprio per rendere omaggio al verso, che sono ben felice di aver rivalutato, mi vorrei soffermare sull’Edda poetica o, come sarebbe più corretto definirla, “Canzoniere eddico”.
Risalente al Medioevo, anonimo (mentre la versione in prosa è attribuita a Snorri Sturluson), parte di un documento contenuto in una celebre pergamena passato alla storia sotto il nome di “Codex Regius 2365”, ricco di richiami storici e soprattutto alla religione e alla tradizione dei popoli scandinavi, il canzoniere eddico è un testo che si interroga sulle questioni intramontabili che, sebbene il successivo avvento del Cristianesimo abbia cambiato il modo di concepire la spiritualità in generale e sebbene i secoli a venire siano stati caratterizzati da un presunto progresso intellettuale e morale, sono poi quelle su cui si interroga inevitabilmente ancora l’Uomo di oggi: l’origine del mondo, la brama di potere, la lotta fra bene e male.

Il misterioso autore tenta di rispondere attraverso miti che vedono come protagonisti draghi, mostri, principesse, streghe e lotte contro figure inumane la cui sconfitta andrebbe poi a giustificare l’affermazione di superiorità dell’umanità sulla Terra.
L’opera si compone di ventinove canti, alcuni strutturati in forma monologica, altri in forma dialogica.

Il contenuto pomposo della prima parte, che comprende i primi dieci canti, mi ha riportata alla creazione del mondo così come narrata nella Genesi ma anche un po’ alla cosmogonia tolkieniana del Silmarillion.
Il primo canto della raccolta si apre, infatti, descrivendo una dimensione atemporale in cui nulla è al suo posto “Era il principio, non c’era né terra né spiaggia né onde gelide…” finché non intervengono gli dèi a dare un nome alle cose del creato (la luna, il sole, le stelle), le dispongono in modo armonioso, danno loro un potere, un’anima e una sorta di intelletto in modo tale che esse siano capaci di comprendere quale sia il loro potere e quali siano i limiti oltre i quali esso non può espandersi.
Successivamente, troviamo innumerevoli elogi degli dèi e delle loro gesta e una descrizione, della creazione degli esseri animati in cui rentra ovviamente anche la creazione dell’uomo, e come ogni mito che si rispetti il tutto è permeato da un alone di giustificazionismo delle figure umane più caratteristiche… E’ in quest’opera che si trovano, infatti, i primi riferimenti ai nani, si fa derivare la loro nascita dalla terra e dalla roccia e sono attribuite loro abilità esemplari (come quella nella lavorazione dei metalli) che ne giustificano l’esistenza, oltre che caratteristiche poco etiche: essi sono raffigurati come esseri subdoli e traditori. E’ forse proprio da qui che si origina la tradizione che associa il nanismo alla malizia, luogo comune ampiamente diffuso e ricorrente anche negli scritti tolkieniani nonché nelle “Cronache del Ghiaccio e del Fuoco ” di G. R. R. Martin nella figura di Tyrion Lannister, fondamentalmente più saggio di tutti gli altri personaggi ma con un carattere scaltro riconducibile non di certo al suo nanismo bensì alla sua tendenza ad essere disprezzato da suo padre a causa di esso.
I diciannove canti che costituiscono la seconda parte del canzoniere, invece, narrano di gesta eroiche e di battaglie, e in questi riscontriamo una grande somiglianza con i miti classici. Questa parte contiene anche la famosa leggenda di Sigurd e Gudrun, successivamente tradotta e rivisitata da J. R. R. Tolkien.

Si può dire, infatti, che gli esponenti del fantasy contemporaneo che hanno avuto indubbiamente maggiore fortuna e maggior successo, siano in qualche modo debitori all’ancor dubbio autore dell’Edda.

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Pergamena contenente la versione in inglese (a cura di J. R. R. Tolkien) della “Leggenda di Sigurd e Gudrun”

 

 

 

 

 

 

Consiglio a tutti di leggere questa raccolta, appassionante, assolutamente sottovalutata e fondamentale perché alla base di quelle tradizioni popolari che tutti, almeno una volta nella vita ci siamo inevitabilmente chiesti in cosa affondino le loro radici.

Per me è stata una lettura più che piacevole, non solo perché ha soddisfatto pienamente il mio bisogno di alienarmi dalla mia studentesca, frenetica e più o meno ridondante quotidianità, ma anche perché mi ha consentito di riscoprire e di imparare ad apprezzare il verso, nella sua concisione e nella sua eleganza.
Soprattutto, i racconti di battaglie tra figure che impersonano Bene e Male, che dopo varie peripezie si concludono sempre con la vittoria del bene, mi hanno concesso, per un po’, il lusso di guardare il mondo con gli occhi di una bambina, mi hanno trasmesso ottimismo e fiducia e, strappandomi piacevolmente via un po’ di ordinario disincanto, mi hanno anche ricordato (parafrasando Chesterton) che “le fiabe e leggende non servono a insegnare ai bambini che i draghi esistono, questo i bambini lo sanno già. Servono a insegnare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti”.