L’Edda poetica: la grandezza del mito e la grazia del verso

Di Martina Cimino

Frequentavo il liceo quando mi trovai a dover tradurre il Beowulf e altre ballate e poemi, nonché a ricostruire, un po’ con compiacenza ma, a dire il vero, anche con un po’ di noia, i versi dell’Iliade, dell’Odissea, dell’Eneide.

Mi sembrava un modo di scrivere così distante da quel che a me piaceva leggere nel tempo libero, così troppo funzionale alla didattica, che mai avrei pensato di andare a riprendere di mia spontanea volontà un’opera scritta in quel modo.
Col passare degli anni però,  i gusti letterari cambiano, e così in un grigio e freddo pomeriggio dell’ottobre di quattro o cinque anni dopo, mi ritrovo a gironzolare tra gli scaffali di una libreria pisana, alla ricerca di qualcosa che mi faccia distrarre, che sia diverso da quel che leggo di solito. Decido inaspettatamente di tuffarmi nella mitologia norrena e in particolare nella lettura dell’Edda, la raccolta mitopoietica che racconta le origini del mondo attraverso un corpus di storie che può, in un certo senso, considerarsi l’antenato del fantasy così come lo conosciamo oggi.

Ma eccomi subito di fronte ad una seconda scelta: leggere l’Edda in prosa oppure in versi?
Ebbene, nell’indecisione ne acquisto ambedue le versioni.
Credo, oggi, dopo averle lette entrambe ed esserne rimasta estasiata, che sia una delle opere più belle, più significative, più profonde e (contro ogni previsione) più scorrevoli, che io abbia mai letto.
Proprio per rendere omaggio al verso, che sono ben felice di aver rivalutato, mi vorrei soffermare sull’Edda poetica o, come sarebbe più corretto definirla, “Canzoniere eddico”.
Risalente al Medioevo, anonimo (mentre la versione in prosa è attribuita a Snorri Sturluson), parte di un documento contenuto in una celebre pergamena passato alla storia sotto il nome di “Codex Regius 2365”, ricco di richiami storici e soprattutto alla religione e alla tradizione dei popoli scandinavi, il canzoniere eddico è un testo che si interroga sulle questioni intramontabili che, sebbene il successivo avvento del Cristianesimo abbia cambiato il modo di concepire la spiritualità in generale e sebbene i secoli a venire siano stati caratterizzati da un presunto progresso intellettuale e morale, sono poi quelle su cui si interroga inevitabilmente ancora l’Uomo di oggi: l’origine del mondo, la brama di potere, la lotta fra bene e male.

Il misterioso autore tenta di rispondere attraverso miti che vedono come protagonisti draghi, mostri, principesse, streghe e lotte contro figure inumane la cui sconfitta andrebbe poi a giustificare l’affermazione di superiorità dell’umanità sulla Terra.
L’opera si compone di ventinove canti, alcuni strutturati in forma monologica, altri in forma dialogica.

Il contenuto pomposo della prima parte, che comprende i primi dieci canti, mi ha riportata alla creazione del mondo così come narrata nella Genesi ma anche un po’ alla cosmogonia tolkieniana del Silmarillion.
Il primo canto della raccolta si apre, infatti, descrivendo una dimensione atemporale in cui nulla è al suo posto “Era il principio, non c’era né terra né spiaggia né onde gelide…” finché non intervengono gli dèi a dare un nome alle cose del creato (la luna, il sole, le stelle), le dispongono in modo armonioso, danno loro un potere, un’anima e una sorta di intelletto in modo tale che esse siano capaci di comprendere quale sia il loro potere e quali siano i limiti oltre i quali esso non può espandersi.
Successivamente, troviamo innumerevoli elogi degli dèi e delle loro gesta e una descrizione, della creazione degli esseri animati in cui rentra ovviamente anche la creazione dell’uomo, e come ogni mito che si rispetti il tutto è permeato da un alone di giustificazionismo delle figure umane più caratteristiche… E’ in quest’opera che si trovano, infatti, i primi riferimenti ai nani, si fa derivare la loro nascita dalla terra e dalla roccia e sono attribuite loro abilità esemplari (come quella nella lavorazione dei metalli) che ne giustificano l’esistenza, oltre che caratteristiche poco etiche: essi sono raffigurati come esseri subdoli e traditori. E’ forse proprio da qui che si origina la tradizione che associa il nanismo alla malizia, luogo comune ampiamente diffuso e ricorrente anche negli scritti tolkieniani nonché nelle “Cronache del Ghiaccio e del Fuoco ” di G. R. R. Martin nella figura di Tyrion Lannister, fondamentalmente più saggio di tutti gli altri personaggi ma con un carattere scaltro riconducibile non di certo al suo nanismo bensì alla sua tendenza ad essere disprezzato da suo padre a causa di esso.
I diciannove canti che costituiscono la seconda parte del canzoniere, invece, narrano di gesta eroiche e di battaglie, e in questi riscontriamo una grande somiglianza con i miti classici. Questa parte contiene anche la famosa leggenda di Sigurd e Gudrun, successivamente tradotta e rivisitata da J. R. R. Tolkien.

Si può dire, infatti, che gli esponenti del fantasy contemporaneo che hanno avuto indubbiamente maggiore fortuna e maggior successo, siano in qualche modo debitori all’ancor dubbio autore dell’Edda.

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Pergamena contenente la versione in inglese (a cura di J. R. R. Tolkien) della “Leggenda di Sigurd e Gudrun”

 

 

 

 

 

 

Consiglio a tutti di leggere questa raccolta, appassionante, assolutamente sottovalutata e fondamentale perché alla base di quelle tradizioni popolari che tutti, almeno una volta nella vita ci siamo inevitabilmente chiesti in cosa affondino le loro radici.

Per me è stata una lettura più che piacevole, non solo perché ha soddisfatto pienamente il mio bisogno di alienarmi dalla mia studentesca, frenetica e più o meno ridondante quotidianità, ma anche perché mi ha consentito di riscoprire e di imparare ad apprezzare il verso, nella sua concisione e nella sua eleganza.
Soprattutto, i racconti di battaglie tra figure che impersonano Bene e Male, che dopo varie peripezie si concludono sempre con la vittoria del bene, mi hanno concesso, per un po’, il lusso di guardare il mondo con gli occhi di una bambina, mi hanno trasmesso ottimismo e fiducia e, strappandomi piacevolmente via un po’ di ordinario disincanto, mi hanno anche ricordato (parafrasando Chesterton) che “le fiabe e leggende non servono a insegnare ai bambini che i draghi esistono, questo i bambini lo sanno già. Servono a insegnare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti”.

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