Parigi: il fallimento del modello di integrazione francese? Intervista a Jean-Yves Le Léap

Di Antonietta Bivona

“Quello che è successo a Parigi, la notte del 13 novembre, è una tragedia – è chiaro –, ma quando mi hanno svegliato per dirmelo, tristemente ho risposto: “me l’aspettavo”. Sapevo che sarebbe successo.”

È un parigino a pronunciare queste parole a qualche giorno dagli attentati di Parigi. Ero all’università e assistevo ad una conferenza dal titolo “Conoscere il mondo arabo-islamico”, durante la quale si è dedicato qualche minuto agli attacchi di Parigi di qualche giorno prima. Ad un certo punto, è il professor Jean-Yves Le Léap, lettore di lingua straniera presso l’Università di Catania, a prendere la parola con un intervento che ha probabilmente sorpreso la maggior parte dei presenti. Un discorso che da un francese non ti aspetti, un discorso che pone l’accento su una questione che è stata sottovalutata dai media italiani e internazionali: il fallimento del modello di integrazione francese. A distanza di qualche giorno, infatti, l’emozione, lo shock e le reazioni a caldo cominciano a lasciare spazio a qualcosa di costruttivo, alla riflessione: si comincia a ponderare con più lucidità quello che è accaduto, e a proposito di lucidità, mi è sembrato che il discorso del professore Le Léap ne avesse parecchia. Lucidità e onestà che si sono espresse in un’accuratissima analisi sull’integrazione in Francia negli ultimi decenni.

Il giorno dopo sono andata a scambiare quattro chiacchiere con lui, ne è venuta fuori una breve intervista. Ve la riporto:

Professore, è la seconda volta, in un anno, che la Francia viene colpita da attacchi terroristici: il 7 gennaio 2015 con l’attacco alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo, provocando la morte di dodici persone; e venerdì scorso con un attentato senza precedenti, che ha visto 7 attacchi contemporanei mettere a ferro e a fuoco la città. Perché, secondo lei, la Francia è stata presa di mira per ben due volte in un solo anno?

Difficile rispondere. Quello che sta succedendo è una guerra e in una guerra ci sono dei vincitori e degli sconfitti e – per dirla molto grossolanamente – in questo caso, una volta vince lo Stato francese e una quello islamico. Se si poteva fare qualcosa? Pare che ci sia stata una lacuna da parte dei servizi di intelligence. Le forze di polizia erano già state aumentate a partire gennaio, mese in cui è entrato in vigore un piano speciale antiterroristico (Plan Vigipirate) che instaura lo stato di massima allerta con controlli a tappeto da parte di tutti i corpi di polizia francese. Il problema, però, in questo caso, è stato il lavoro d’intelligence. In tempi di crisi tutti i governi cercano di risparmiare (non solo quello francese) sugli effettivi della polizia e soprattutto sui mezzi tecnici e tecnologici per avere delle informazioni. Uno dei primi intervistati, l’ex capo di uno dei corpi speciali, diceva che, quando sono chiamati ad intervenire perché c’è un attacco in corso, la situazione è difficile da gestire, non può intervenire il poliziotto di strada e, nel momento in cui si arriva sul posto, la strage è già compiuta. L’unico modo è prevenire. Come? Sviluppando i mezzi d’intelligence per arrestare preventivamente questi terroristi e smantellare queste cellule. Questo si può fare solo avendo abbastanza uomini a disposizione e sviluppando le tecnologie. Da questo punto di vista la Francia è stata un po’ superficiale.

Che senso ha lo stato di allerta in questo momento e la chiusura delle frontiere?

“Chiusura delle frontiere”: mi piace quest’espressione grossolana che usate voi italiani. Da noi “fermer le frontières” lo dice solo Marine Le Pen. In ogni caso, si tratta di ristabilire i controlli all’interno dello spazio Schengen, mi sembra giusto farlo, e lo stesso Trattato Schengen lo prevede. Ma sono misure che lasciano il tempo che trovano, perché il nemico ce l’abbiamo dentro casa. Chi commette questi attentati non viene da fuori, sono i francesi stessi. Quindi tutta la difesa francese va riorganizzata: siamo abituati ad una mentalità che concepisce la difesa contro un nemico che viene dall’esterno, mentre non è così.

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Venerdì sera è stata colpita la Francia, ma anche tutta l’Europa, i suoi valori, il suo stile di vita – non a caso sono stati colpiti il X e soprattutto l’XI arrondissements che sono luoghi più frequentati dai giovani, dove lo stile di vita della società occidentale si esprime in tutte le sue forme –, quale dovrebbe essere secondo lei la risposta? Dopo venerdì è stato dichiarato lo stato di emergenza e, allo stesso tempo, i servizi pubblici sono stati ridotti e le manifestazioni pubbliche vietate – addirittura sono stati vietati i rassemblements per piangere i morti. Si parla di limitare la libertà per difendere la libertà, non è un paradosso? Perché questa risposta? E quanto è utile?

Io qui sarei molto più prosaico. Semplicemente la legge sul coprifuoco prevede la chiusura di strade, piazze, divieti di manifestazione e possibilità di perquisire. È una decisione presa senza nessuno stato d’animo.

Questo non è, però, fare il gioco dei terroristi?

Come diciamo in Francia, “il faut savoir ce qu’on veut”. Bisogna sapere cosa si vuole. Cosa vogliamo fare noi? Vogliamo lottare contro il terrorismo e capire che in uno stato di guerra vengono revocate le libertà fondamentali per una questione di salvaguardia, di sopravvivenza dei popoli? Oppure vogliamo lasciare le cose così come stanno per non fare il gioco dei terroristi? Io non ho una risposta, ma lo stato francese si sta orientando sul fronte repressivo. A tal proposito, bisogna aggiungere che Hollande non è molto popolare in Francia in questo momento, è molto criticato dalla destra per la sua politica lassista, e quindi usare metodi che possono sembrare repressivi (e forse lo sono) è sicuramente una manovra di politica interna che mira a recuperare i consensi. Si comincia, infatti, a parlare delle prossime elezioni nel 2017 e si prendono certi provvedimenti per vincerle: se non Hollande, quantomeno il partito socialista. C’è un gioco di politica interna di cui si sa poco all’estero.

Nel suo intervento al convegno di martedì 17, lei ha detto, molto onestamente e lucidamente, che prima di parlare di sicurezza, di repressione, bisognerebbe andare alla radice del problema: nel fallimento del modello di integrazione francese. Lei crede che sia davvero così? In cosa consiste questo fallimento, quali sono le motivazioni che ne stanno alla base e le conseguenze?

Ci vorrebbero ore per spiegare questa realtà francese. Partiamo da quello che sanno tutti: la Francia è una terra di immigrazione. Nel periodo post-coloniale, sono arrivati in Francia molti migranti, i quali oggi hanno preso la cittadinanza francese e hanno avuto figli e nipoti. Per questo in Francia si parla di immigrati di seconda e terza generazione, ma che in realtà sono francesi. Molti di loro non sono mai stati nella loro terra d’origine e a stento parlano la loro lingua madre, ma a causa della loro estrazione popolare, del loro colore di pelle, dell’origine araba del loro cognome sono oggetto di discriminazione. Quando vivevo ancora in Francia – tra gli anni ‘70/’80 – venivano chiamati “arabi”, ora è cambiato il lessico: vengono chiamati “musulmani”, che guarda caso è lo stesso modo in cui i francesi chiamavano i non francesi in Algeria all’epoca in cui l’Algeria era una colonia francese. Quindi a livello di terminologia siamo in presenza di una tremenda involuzione, e se sappiamo che le parole riflettono i concetti (spesso li creano), la stigmatizzazione di questi giovani francesi, che vengono additati come “musulmani”, genera delle conseguenze gravissime: essi vengono affascinati da una realtà islamica che si prospetta loro fuori dai confini francesi. Ecco, come a un certo, punto diventa molto facile allontanarsi da una realtà francese, dalla quale sono rigettati, per abbracciare l’ideale jihadista. Una volta che non riesci ad identificarti con la società della quale fai parte, l’identità te la devi costruire e paradossalmente te la costruisci con l’immagine che ti rimandano di te stesso: un musulmano aggressivo e che si deve vendicare. Internet fa il resto.

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Nel concreto, secondo lei, cosa si potrebbe fare per arginare questo fenomeno e per favorire l’integrazione quotidiana?

Questi atti terroristici non sono altro che la conseguenza di una situazione che si vive in Francia da decenni. Quindi cosa si potrebbe fare? Non si è risolto il problema negli ultimi sessant’anni, nonostante i vari provvedimenti, e adesso è difficile. Le soluzioni si cercano e si continueranno a cercare, ma si tratta di politiche su lungo corso.

A proposito del modello di integrazione francese, lei che vive tra la Francia e l’Italia, cosa ne pensa di quello italiano? Come vede la situazione italiana nei confronti degli immigrati?

Io sono arrivato in Italia negli anni ‘80, e all’inizio vedevo che gli italiani avevano una buona considerazione degli immigrati ed erano poco razzisti sia nella mentalità che nelle parole, avendo vivo il ricordo delle migrazioni italiane all’estero negli anni precedenti. Oggi, invece, sento parole sconvolgenti, assisto ad episodi di odio e di razzismo che noi non abbiamo mai raggiunto in Francia. Noi ci abbiamo impiegato sessant’anni per formare i jihadisti. Se l’Italia continua di questo passo, temo che li avrà tra un paio di mesi al massimo.

A proposito di integrazione, e a un livello strettamente politico, quali conseguenze potrebbero avere in Francia gli attentati di venerdì? A poche settimane dal voto per le regionali, sembra che il Front National sia in ascesa. I sondaggi precedenti agli attentati davano già il FN come primo partito, dopo gli attentati i consensi aumentano. Marine Le Pen, dopo un incontro con Hollande ha dichiarato: «Siamo d’accordo con questo stato d’emergenza a patto che si decida finalmente di andare a disarmare le banlieues». Lei crede che gli eventi dell’ultima settimana porteranno davvero il Front National a vincere? E che conseguenze potrebbe avere sulle banlieues francesi e sul modello di integrazione?

È difficile dirlo. Che il Front National sia in ascesa è certo. Bisogna vedere se questi attentati favoriranno la sua ascesa o se essa sarà legata ad un suo normale percorso politico a prescindere. È troppo presto. Da quel che vedo, si sta dando a Marine Le Pen il tempo di parola sui media minimo, quello necessario per par condicio. Piuttosto che disarmare le banlieues bisognerebbe impedire che si armino maggiormente. Il punto è sempre quello.

Un’ultima domanda: non so se lei ha un profilo Facebook, ma negli ultimi giorni moltissime persone hanno impostato come immagine del profilo la bandiera francese per mostrare solidarietà nei confronti della Francia e delle vittime degli attentati. Però riflettevo su una cosa: il giorno prima degli attentati di Parigi, a Beirut 50 persone sono morte in un attentato; 111 persone sono state uccise in Palestina nelle ultime settimane, per non parlare delle vittime ad Ankara durante una manifestazione pacifica. In nessuna di queste occasioni, alcuna bandiera è stata utilizzata per mostrare solidarietà. Perché, secondo lei? Perché per la Francia mostriamo solidarietà, vicinanza – la stiamo mostrando in questi giorni, l’abbiamo mostrata per Charlie Hebdo – mentre per altri paesi che vivono avvenimenti della stessa portata no?

Da francese, è chiaro che mi fa piacere sentirlo. In effetti, però, questa cosa mi stupisce e la stessa domanda me la sono posta io stesso. C’è chi pone l’accento sulla vicinanza culturale e voglio sperare che sia solo questo. Oppure gli italiani hanno capito che il pericolo si sta avvicinando e solidarizzare con la Francia è un modo per esorcizzare le proprie paure.

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