Journey, un viaggio inatteso

Di Desiré Calanni

Da anni ormai la maggior parte delle discussioni tra me e il mio ragazzo hanno come tema principale i videogiochi. No, non si tratta del cliché trito e ritrito di “lei” che rimprovera a “lui” di passare troppo tempo attaccato al joypad. Quello che ci infiamma è il tentativo di capire se e fino a che punto il videogioco, inteso come nuovo mezzo espressivo, possa essere considerato un’ottava arte. Ecco allora emergere due posizioni opposte e discordanti, interpretate fino allo sfinimento da due grotteschi personaggi:

Lui: videogamer incallito, conoscitore attento del mezzo, sempre informato sulle ultime novità più o meno note in ambito videoludico. Un combattente armato di joypad e protetto da una solida armatura teorica frutto di studio e passione.

Io: purista fino allo sfinimento. Una paladina armata di libri con una biro al posto della spada. Da sempre ossessionata dalla domanda “cos’è l’opera d’arte?”, mi risulta difficile approcciarmi a certa arte contemporanea, figuriamoci ai videogiochi.

Potete immaginare quante scintille e fiamme nate dalla collisione di due personaggi del genere. Scontri che non hanno portato ad alcun risultato finché la sottoscritta non ha smesso gli abiti da don Chisciotte e intrapreso un percorso dal titolo “Journey“.

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Journey, per chi non ne avesse mai sentito parlare, è un videogioco del 2012 sviluppato dalla casa videoludica indipendente Thatgamecompany. Quando mi è stato proposto di provarlo mi sono gettata sul divano e ho iniziato svogliatamente e anche un po’ distrattamente quello che si è rivelato poi essere un meraviglioso viaggio!

È bastato un attimo perché la distrazione e la svogliatezza si tramutassero in curiosità. Un breve video iniziale mostra la distesa sconfinata di un deserto fino all’apparizione del protagonista del gioco: una figura incappucciata – il cui abbigliamento ricorda vagamente quello delle popolazioni Tuareg – dal viso privo di lineamenti sul quale si stagliano due luminosissimi occhi. Un essere dal sesso indefinito, solo o sola in mezzo al deserto, che può interagire con l’ambiente circostante tramite soltanto tre azioni: camminare, volare ed emettere suoni simili a canti.

Sono io, ho pensato, e da subito, con molta naturalezza, ho intrapreso questo percorso. Ho attraversato il deserto, tra le vestigia di misteriose civiltà scomparse, aiutata da altrettanto misteriose creature che di tanto in tanto sbucano fuori per indicare la via o forse, semplicemente, per tener compagnia. Tra deserti, rovine, città perdute e paesaggi artici, il viaggio della misteriosa figura incappucciata si svolge linearmente tramite il superamento di diverse tappe che corrispondono ad altrettante ambientazioni. Già questi elementi potrebbero bastare per fare di Journey un videogame fuori dal comune. Eppure c’è di più. Se si decide di giocare in modalità multiplayer online, è possibile incontrare altri giocatori con i quali condividere il proprio viaggio in tempo reale. Ognuno sarà ignaro dell’identità dell’altro e l’unico modo per poter comunicare, se si volesse farlo, è un linguaggio privo di parole, fatto di movimenti e brevi suoni. L’unico modo che si ha per entrare in contatto con l’altro, insomma, è avvicinarsi fisicamente ad esso, senza paura, liberi dalla dittatura delle parole.

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In breve, Journey non è un videogioco nel senso classico (o comunque più diffuso) del termine: non vi sono lotte, non vi è competizione, non ci sono obiettivi da raggiungere per non far perire il proprio personaggio. Non vi sono parole, in Journey, ogni contatto è empatico e intimo, fatto di segnali non prestabiliti, di linguaggi di volta in volta nuovi, le cui regole vengono stabilite tacitamente tra i giocatori che si incrociano vicendevolmente durante il proprio percorso. Si incrociano come ci si incrocia nella vita, per caso, e per caso o volontà si sceglie, a volte, di condividere il proprio cammino. Senza parole, accompagnati dal sogno e da mille domande.

A percorso terminato (meno di due ore in tutto) le domande che avevo in mente all’inizio erano scomparse per lasciar posto a nuovi interrogativi. Non so ancora se il videogioco in quanto tale possa esser definito un mezzo artistico, non ho più la presunzione di rispondere a quest’annosa questione. Ma adesso so per certo che è un mezzo portentoso, in grado di veicolare messaggi non scontati, suscitare interrogativi e aprire nuove finestre sul mondo e su nuovi mondi che aspettano solo di esser scoperti.

Non è forse questa una delle caratteristiche delle opere d’arte?